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Osservare i pianeti extrasolari tramite l’effetto lente gravitazionale: la proposta dei fisici di Stanford

Fino all’inizio Novanta la presenza di pianeti intorno alle altre stelle era, sebbene ritenuta scontata, solo un’ipotesi. Oggi sappiamo che non solo gli esopianeti esistono, gli astronomi ne hanno catalogati già più di 5000, ma che la loro presenza costituisce la regola. Nondimeno, dopo averne individuato uno risulta di estrema difficoltà reperire ulteriori informazioni utili sul pianeta stesso, per gli attuali limiti tecnologici degli strumenti di osservazione.

Una nuova tecnica di imaging proposta dai fisici dell’Università di Stanford mira a valicare questi confini sfruttando un fenomeno di deformazione dello spaziotempo denominato lensing gravitazionale, un effetto lente che permetterebbe di ottenere dettagli anche 1000 volte più precisi e accurati rispetto alle tecniche di imaging attualmente in uso: così come una lente d’ingrandimento piega la luce ingrandendola, la gravità deforma lo spaziotempo dando luogo a un effetto analogo.

Pianeti a 100 anni luce di distanza visualizzati come la Terra dalla Luna

Il sistema descritto dai ricercatori consiste nel posizionare un telescopio con il Sole al centro e l’esopianeta in linea dalla parte opposta; in tal modo gli astronomi sarebbe in grado di sfruttare il campo gravitazionale del Sole per amplificare la radiazione luminosa emessa dal pianeta durante il transito.

“Il nostro obiettivo è scattare foto di pianeti in orbita attorno ad altre stelle che siano di qualità paragonabile a quelle che possiamo fare ai pianeti del nostro sistema solare. Con questa tecnologia speriamo di scattare una foto di un pianeta a 100 anni luce di distanza che abbia lo stesso impatto dell’immagine della Terra dall’Apollo 8” spiega Bruce Macintosh, professore di fisica presso l’Università Stanford e vicedirettore del Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology (KIPAC).

Al momento la messa in atto della tecnica descritta prevederebbe lo sfruttamento di tecnologie ancora non del tutto adeguate, in campo astronautico. Tuttavia le potenzialità insite in questa nuova modalità di studio dei lontani pianeti extrasolari sono tali che gli esperti di Stanford sono convinti valga la pena investire e proseguire in questa ricerca.

Dalle teorie di Einstein alle applicazioni pratiche

L’effetto lente gravitazionale è legato alla prima, celebre conferma sperimentale della teoria della relatività generale di Albert Einstein, grazie alla spedizione dell’astrofisico britannico sir Arthur Eddington che raggiunse il culmine il 29 maggio 1919: durante un eclissi di Sole, grazie alla Luna che fungeva da schermo alla sua luce, gli astronomi poterono verificare che la posizione delle stelle “dietro” al Sole risultava sfalsata rispetto a quella reale, dimostrazione inequivocabile dell’effetto previsto da Einstein: la massa del Sole creava davvero una curvatura nel tessuto dello spaziotempo in grado di piegare la luce che la attraversava.

Il metodo illustrato da Alexander Madurowicz di Stanford si basa sulle esperienze maturate sul campo e sulle proposte teoriche degli ultimi quaranta e più anni. Esso prevederebbe il posizionamento di un telescopio spaziale 14 volte più lontano di quanto lo sia Plutone dalla Terra, ovvero assai oltre i limiti mai raggiunti da qualsiasi manufatto umano.

Lo sforzo tecnologico necessario è grande, ma ne varrebbe la pena

Tuttavia tale distanza è solo una frazione di quanto ci separi dalla più vicine delle altre stelle e si tratta di qualcosa che si può immaginare fattibile sul medio termine: gli autori stessi della proposta ritengono ci vorranno cinquant’anni affinché la tecnologia sia sufficientemente sviluppata e anche il doppio affinché un’eventuale missione abbia effettivamente inizio, con un viaggio di venti o quarant’anni per raggiungere la posizione voluta grazie all’evoluzione di tecniche già in uso come la fionda gravitazionale o innovative come le vele solari.

“Rilevando la luce piegata dal sole, è possibile creare un’immagine ben oltre quella di un normale telescopio” spiega Madurowicz “Quindi, il potenziale scientifico è ignoto e tutto da esplorare perché sta aprendo la strada a una nuova capacità di osservazione che non esiste ancora”. Oggi per ottenere l’immagine di un esopianeta dettagliata come quella descritta dagli autori sarebbe necessario un telescopio grande venti volte la Terra. Basterebbe invece un telescopio come Hubble se in abbinamento alla lente naturale formata dalla gravità del Sole per ottenere la visualizzazione dei dettagli della superficie dei lontani pianeti.

“Si tratta di uno degli ultimi passi per scoprire se c’è vita su altri pianeti” secondo Bruce Macintosh, coautore dello studio. “Scattando una foto di un altro pianeta, potresti guardarlo e forse vedere macchie verdi che sono foreste e macchie blu che sono oceani. E sarebbe difficile sostenere che non ospiti la vita”. Nonostante l’incertezza dei tempi riguardo l’applicazione di questa tecnica, la possibilità di risultati di qualità eccezionale e stupefacente come l’osservazione diretta di continenti e oceani su pianeti ad anni luce di distanza la rende di estremo interesse e certo affascinante.

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