Letteratura

Giacomo Leopardi amava mangiare da solo, ma la monofagia non è mai stata un’abitudine ben vista

Giacomo Leopardi, uno dei più grandi autori della nostra letteratura, è legato indissolubilmente al pessimismo; difficile trovare gioia e slancio nelle sue opere. La sua vita e il suo carattere hanno contribuito di sicuro a influenzare i suoi scritti.

Fra le varie abitudini che contraddistinguevano lo scrittore di Recanati, c’è l’abitudine di mangiare da solo. Infatti, è lo stesso Giacomo Leopardi ad aver lasciato indicazioni di questa sua usanza, nel celebre “Zibaldone”.

La monofagia di Giacomo Leopardi

Monofagia, ecco il termine giusto per indicare l’atto del mangiare in solitudine, era un’usanza che lo scrittore di Recanati praticava costantemente, come lui stesso ha raccontato in diversi passaggi delle sue opere.

La solitudine durante i pasti di Leopardi era totale: senza commensali e senza nemmeno servitori.

Si trattava di una scelta consapevole, dettata dalla considerazione che il momento della nutrizione è strettamente legato al benessere fisico.
Dunque, deve svolgersi assecondando i propri ritmi e non quelli degli altri commensali. Un momento tutto per se’, da dedicare alla propria persona e alla propria salute, sia fisica, che materiale e spirituale.

La monofagia come elemento di disprezzo

Oggigiorno siamo abituati alla convivialità e alla condivisione dei pasti; pensiamo anche solo alla famosa canzone “Aggiungi un posto a tavola” che è un inno a consumare in compagnia i propri pasti per condividere non solo il cibo, ma anche le emozioni e le vicende che riteniamo importanti.

Anche in passato, mangiare insieme era un’usanza molto comune e Giacomo Leopardi ne era consapevole. Sempre nello “Zibaldone” riporta che presso gli antichi il termine monofagia era utilizzato in senso spregiativo e di disprezzo, legato all’egoismo.

Le origini del termine monofagia

Le origini del termine monofagia, e della sua accezione negativa, sono da ricondurre a una vicenda legata alla guerra di Troia. Si narra, infatti, che al ritorno dalla lunga guerra che oppose Troiani e Achei i superstiti dell’isola di Egina erano molto pochi.

Dunque, i pochi sopravvissuti, una volta arrivati a casa, si sentivano in colpa nei confronti dei compagni morti a Troia e nei confronti delle loro famiglie. Per questo, celebrarono il rientro in sordina, anzi segretamente con banchetti e pranzi privati, riservati agli stretti familiari.

Da questo episodio, narra Plutarco, nacque una festa che ricorreva periodicamente nell’isola di Egina. Alcuni abitanti, per sedici giorni, mangiavano in solitudine, senza alcun commensale e nessun servo a coordinare il pranzo. Terminati i sedici giorni, la festa si concludeva con un solenne sacrificio finale.

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