Giochi da tavolo antichi: come si divertivano i nostri antenati

È una questione polarizzante fin da quando l’uomo ha cominciato a muovere i suoi primi passi sulla Terra.

Quando si parla di giochi da tavolo, le persone reagiscono in mille modi diversi, mostrando chi entusiasmo, chi antipatia, quando non addirittura un’avversione feroce.

Alcuni di noi ospitano serate a base di giochi o si recano nelle ludoteche per sfidarsi con gli amici, o i familiari, all’ultima partita. Altri invece fingono di essere ammalati, o di stare poco bene, pur di evitare questi incontri e rimanere a casa a leggere un buon libro.

Indipendentemente da quale parte della barricata tu stia, rimane un fatto: i giochi da tavolo, fin dagli albori della civiltà, sono stati passatempi popolari in diverse culture antiche.

Gli archeologi che lavorano in tutto il mondo hanno scoperto i resti di questi giochi da tavolo antichi, insieme a schede, gettoni e dadi realizzati con ossa di animali.

I reperti rivelano la grande antichità, e l’ubiquità culturale, dei giochi da tavolo, ma i ricercatori hanno ancora molto da imparare sulle regole, sul numero di giocatori e sulle scommesse di molti giochi del passato.

Giochi da tavolo antichi: senza tempo o persi nel tempo?

Alcuni giochi hanno resistito e si sono trasformati, nel corso dei millenni, nei giochi da tavolo che conosciamo oggi.

Le origini degli scacchi, ad esempio, risalgono probabilmente al gioco indiano del chaturanga, descritto nei testi sanscriti dal VII secolo dopo Cristo.

La versione antica simulava una battaglia tra le quattro braccia dell’esercito indiano: elefanti, cavalleria, carri e fanti.

Il gioco si è poi evoluto mentre si diffondeva anche nella cultura persiana, nella cultura araba e nella cultura europea.

Nel XVI secolo assomigliava già agli scacchi moderni, completi di regina dominante, che riflettevano le potenti monarche dell’epoca, come Elisabetta I d’Inghilterra e Caterina de’ Medici.

Altri giochi invece sono passati di moda e le loro regole sono state dimenticate. È il caso del Mehen, un antico gioco da tavolo molto amato nell’antico regno egiziano tra i 5000 e i 4000 anni fa.

Basato su beni funebri, testi e murali, gli archeologi sanno che il Mehen – che in italiano significa Spirale – presentava una tavola da gioco a forma di serpente o di spirale.

Coda all’esterno, testa al centro, il corpo del serpente era segmentato da dozzine di tacche.

I set da gioco includevano anche biglie di sei colori diversi e sei figurine di leoni. Sembra che potessero giocarci fino a sei giocatori, ma gli spazi erano troppo piccoli per posizionare i marmi, i leoni e le scene artistiche raffigurate nella tavola da posizionare in verticale.

Gli studiosi moderni affermano che il Mehen potrebbe essere interpretato e trasposto in una versione moderna, ma non si sa come.

Giochi da tavolo antichi: le prime tracce nella storia

I manufatti più antichi, che potrebbero essere considerati come tavole da gioco, provengono dal Vicino Oriente e hanno tra i 6000 e i 10’000 anni, quindi risalgono al Neolitico – quando gli abitanti della regione cominciarono a coltivare la terra e a risiedere in villaggi permanenti.

Nei siti neolitici dell’attuale Giordania, della Siria e dell’Iran, gli archeologi hanno scoperto circa una dozzina di lastre di pietra o di gesso, segmentate da file di fossette poco profonde.

I ricercatori sospettano che le lastre servissero da tabellone per giochi simili al mancala.

In tal caso i giocatori avrebbero riempito le fossette con pezzi da gioco, poi avrebbero gareggiato tra di loro per cercare di “mangiare” o di catturare quanti più pezzi possibili agli avversari.

Dato che nessuna pedina, o altri pezzi da gioco, è stata trovata con le lastre, probabilmente i giocatori usavano semi, ciottoli o altri gettoni ad hoc.

I pezzi da gioco durevoli e artigianali di questo periodo rimangono sfuggenti. Piccole lance di argilla, coni e altre forme in 3D sono reperti comuni nei siti neolitici del Vicino Oriente.

Alcuni studiosi pensano che questi manufatti siano pezzi da gioco, ma la maggior parte ritiene che queste figurine siano state usate per la contabilità – per tenere traccia delle merci, insomma – prima dell’invenzione della scrittura.

“Pedine” da gioco più convincenti provengono da un sito neolitico nel sud-est della Turchia, che ha prodotto un deposito di 22 pezzi di calcare lucido, ciascuno alto circa due centimetri e con una base piatta.

Questo non vuol dire che le persone non stessero giocando prima o altrove. Le tavole del Vicino Oriente e le pedine putative hanno resistito alla prova del tempo perché erano fatte di pietra e di gesso.

Altri giochi, invece, erano indubbiamente deperibili – con pezzi fatti di bastoncini e assi disegnati in modo rozzo – e svanirono poco dopo il gioco.

Giochi da tavolo antichi: i preferiti dell’Età del Bronzo

Poco dopo, durante l’Età del Bronzo, le testimonianze dei giochi da tavolo antichi nel Vicino Oriente diventano più ricche.

Nel 2013, i ricercatori che hanno scavato una tomba di 5000 anni fa in Turchia, hanno riportato alla luce 49 piccole pietre, scolpite e dipinte in modo da assomigliare a maiali, cani e altre forme in 3D, insieme a dadi e gettoni circolari fatti di conchiglia.

Gli archeologi hanno ipotizzato che i manufatti fossero pezzi da gioco, ma non hanno trovato alcuna tavola da gioco o regolamento scritto.

Cercare di comprendere come funzionasse questo gioco è come tentare di scoprire le regole del Monopoli partendo solo dalle pedine, dalle banconote sparse e dalle carte da gioco.

Gli archeologi, tuttavia, oggi sanno come si giocava ad un gioco da tavolo che era popolare circa 4500 anni fa e il nome con cui era noto.

Era il Gioco delle Venti Piazze, o Gioco Reale di Ur, del quale sono state rinvenute più di 100 tavole nei siti che vanno dal Mediterraneo orientale fino al Medio Oriente.

I ricercatori avevano rinvenuto i primi esemplari durante gli scavi del 1920 del cimitero reale della città sumera di Ur, situata nell’attuale Iraq.

Tra questi set il più prezioso era uno che presentava una tavola da gioco con scintillanti motivi floreali e geometrici realizzati con conchiglie, lapislazzuli e calcare rosso.

Oggi sappiamo che il gioco comprendeva venti piazze (o almeno, una delle sue versioni più recenti) grazie ad un’antica regola scritta in caratteri cuneiformi nel II secolo avanti Cristo a Babilonia.

La tavoletta di pietra fu trovata tra le rovine di Babilonia alla fine del XIX secolo, ma poi rimase dimenticata nelle collezioni del British Museum di Londra per quasi 100 anni prima che il curatore e filologo Irving Finkel ne riconoscesse il significato.

La traduzione di Finkel descrive una gara complessa e un gioco di scommesse.

I giocatori gareggiavano con cinque pezzi, che rappresentavano uccelli di valore diverso (rondine, uccello del tuono, corvo, gallo e aquila) attraverso le venti piazze della scacchiera.

Le mosse erano dettate dal lancio dei dadi a quattro facce, che erano ricavati dalle ossa delle caviglie di una pecora o di un bue.

Le regole del Venti Piazze però potevano variare, vista la sua diffusione geografica e temporale. L’iscrizione babilonese è solo una versione quindi delle regole del gioco.

Giochi da tavolo perduti nelle Americhe

Numerosi giochi da tavolo antichi erano noti tra gli Aztechi e tra altre civiltà passate dell’America Centrale.

Tra questi il patolli richiedeva alcuni ciottoli, un tappetino dipinto con quadrati che formavano una X o una croce e diversi chicchi di grandi dimensioni, che venivano contrassegnati su una faccia da un punto o da un buco.

I giocatori lanciavano poi in aria dei fagioli e, a seconda di come atterravano, determinavano il punteggio del tiro, quindi il numero di quadrati in cui i giocatori potevano spostarsi con i ciottoli lungo il tappeto.

Concorrenti e curiosi scommettevano sul risultato, invocando spesso Macuilxochitl, dio dei giochi e della fortuna.

Nei giorni di festa capitava spesso che le persone arrivassero dai territori più remoti per giocare d’azzardo con questo gioco da tavolo antico, arrivando addirittura a scommettere preziosi beni esotici.

Nonostante la sua popolarità diffusa, oggi rimangono poche prove fisiche del patolli.

Nel XVI secolo i conquistadores spagnoli vietarono il gioco, distrussero i tappeti e bruciarono i fagioli come parte dei loro sforzi per distruggere le culture indigene.

Ciò che gli archeologi sanno oggi sul patolli lo devono ai passaggi presenti nei manoscritti dell’era coloniale che descrivono questo gioco.

La situazione appare invece invertita per un gioco di corse di ciottoli molto più vecchio: i ricercatori hanno scoperto tracce fisiche del gioco, ma nessuna documentazione scritta o pittorica delle regole.

In un articolo sull’antichità latinoamericana, scritto nel 2013, l’archeologa Barbara Voorhies ha descritto possibili schede di gioco da un sito di circa 5000 anni situato nel sud del Messico, vicino a Chiapas.

Collocato all’interno di una palude di mangrovie, il sito isolano sembra essere stato un accampamento di pesca intermittente in cui gli antichi latinoamericani catturavano e cucinavano le risorse acquatiche.

Oltre a migliaia di conchigli ammucchiate, durante gli scavi sono state rinvenute due potenziali tavole da gioco.

Quella conservata meglio, tra le due, comprende 24 fori delle dimensioni di un dito, distribuiti in modo abbastanza uniforme all’interno di un ovale, impressi nel terreno argilloso.

Nel centro dell’ovale c’è una fossa in cui probabilmente veniva messa una pietra.

Sebbene le regole siano ancora sconosciute, Voorhies ha dichiarato che il gioco assomiglia molto a dei giochi da tavolo che venivano giocati a Copan e a Teotihuacan, nonché da gruppi di nativi americani descritti nei racconti etnografici risalenti al XIX e al XX secolo.

In questi giochi i giocatori gareggiavano con i loro pezzi lungo il percorso delle buche in base ai tiri di dado.

Sembra che 5000 anni fa i pescatori di questo accampamento giocassero ad un gioco da tavolo simile mentre aspettavano che le loro vongole si asciugassero.

Insomma, non erano così diversi da noi quando tiriamo fuori lo smartphone dalla tasca dei pantaloni e ci mettiamo a giocare a Candy Crush in attesa di scendere alla nostra fermata del bus.

Di Francesca Orelli

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