La notte degli oscar può regalare sorprese. Capita, nella 92° edizione del premio più atteso dell’anno in quel di Hollywood, che un film arrivato dall’altra parte del mondo vinca contro avversari del calibro di Martin Scorsese e Quentin Tarantino, conquistando le statuette per la miglior sceneggiatura originale, il miglior film straniero, la migliore regia e infine per il miglior film.
La storia raccontata da Bong Joon-ho vede come protagonista una famiglia di status sociale basso di Seoul che vive di espedienti per sopravvivere. Ma Parasite non è un film triste, né necessariamente tragico.
Piuttosto, l’obiettivo è quello di stupire lo spettatore attraverso una serie di accadimenti imprevedibili e un comparto tecnico che non lascia spazio a dubbi sulla qualità della pellicola, ponendo al centro l’abisso tra la upper class e l’ultimo gradino della scala sociale coreana.
Il contrasto tra la Corea povera e quella ricca, al di là del messaggio culturale, ha soprattutto lo scopo di fornire un contesto ideale al perpetrarsi degli accadimenti. Sono scenari che ci immergono in due ambienti appartenenti ad un mondo lontanissimo dal nostro, così come da quello dell’Academy, e che trovano nella loro esoticità uno dei punti di maggiore impatto del film.
Soprattutto la villa della famiglia Park, dove si svolgono la maggior parte delle vicende, spicca per lo stile iper-moderno e gli spazi ampi utili a gestire ogni scena con ordine, mentre il piano dei “poveri” per sovvertire l’inesorabile stratificazione sociale segue meticolosamente ogni suo passaggio.
Il concetto di parassita, ovvero di un organismo che sfrutta un altro essere vivente per non soccombere, si presenta in diverse occasioni, e si mantiene vivido e presente oltre ogni aspettativa, raggiungendo la propria acme nella parte conclusiva della storia magistralmente narrata.
Come alcune delle opere che hanno albergato più di tutte nella mente del pubblico, Parasite si muove in un limbo che non permette di identificarne con certezza il genere. Un film che critica i divari sociali, black humor alla coreana o semplicemente un thriller imprevedibile?
Delle tre ipotesi, sicuramente tutte valide, è stata probabilmente la terza a portare il film di Joon-ho in vetta. L’arrampicata della famiglia Kim verso un’esistenza migliore vive di una serie di trovate che intrattengono e colpiscono, ballando sul filo del grottesco senza mai superarlo del tutto.
L’arma in più di Parasite, in conclusione, rimane la capacità di riempire la trama di cerchi concentrici: situazioni che si avvolgono intorno ai personaggi e si ricongiungono, e che alla fine si incastrano perfettamente come il più complesso dei rompicapi.
Anche dal punto di vista visivo, le scene forniscono informazioni non solo in maniera diretta, ma anche grazie alla complementarità tra ciò che è facilmente osservabile e i dettagli in secondo piano.
L’arguzia che può spingere una famiglia disagiata dalla vista di una finestrella in un seminterrato a quella di una vetrata immersa nel verde di un giardinetto privato, è la stessa che ha permesso a Bong Joon-ho di venire dalla Corea del Sud e vincere quattro oscar, concludendo la serata sul palco insieme a tutta la troupe e davanti al suo idolo Martin Scorsese.
di Daniele Sasso
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