Parità di genere: quando ce ne ricordiamo?

È in occasione di ricorrenze come l’8 marzo o il 25 novembre che i principali mezzi d’informazione si ricordano di questioni come la disuguaglianza di genere e la condizione delle donne, e così si impegnano per portare all’attenzione amari fatti di cronaca, ricerche e dati che, seppur riportando nel corso degli anni lievi miglioramenti, confermano quanto ancora la realtà veda “l’uomo misura di tutte le cose”.

Nel dibattito pubblico capiterà di incontrare chi, alzando gli occhi al cielo, subito dopo aver sentito pronunciare le parole “Patriarcato”, “Femminismo” (di cui probabilmente neanche conosce il vero significato) e forse il racconto di donne che hanno subito una qualche forma di discriminazione, dirà che le donne esagerano… Dopotutto adesso ci sono donne che governano, dirigono, ricoprono ruoli tipicamente maschili e che, forse, se non rendessero la loro narrazione così vittimista e respingente, otterrebbero maggiore ascolto.

Ma stanno davvero così le cose? È possibile far diventare la parità di genere, uno dei fondamentali diritti umani, un argomento piacevole di cui parlare senza annoiare il nostro interlocutore?

No. Così risponderebbero menti come quella della nota Michela Murgia. Questo perché il femminismo nasce dall’esigenza, da parte del genere femminile, di esprimere un disagio per la propria condizione. Se non vivi la discriminazione non capisci la necessità di superarla e negare la discriminazione dell’altro, nei termini in cui l’altro la vive, è un modo per esercitare un certo privilegio.

Ma cosa si intende veramente per “cultura patriarcale”?

In origine il termine patriarcato indicava il predominio del padre sulla famiglia in ambito domestico, oggi invece con patriarcato intendiamo un sistema sociale in cui tutto è costruito dagli uomini per gli uomini; una società in cui il genere maschile predomina, elevandosi al di sopra di quello femminile che ha ricoperto di stereotipi, violenze e limitazioni.

Il crescente numero di femminicidi, la violenza di genere e la disparità di salario sono solo la punta dell’iceberg. Oltre a queste evidenze drammatiche esistono poi decine di atteggiamenti discriminanti più sottili, spesso percepiti come tollerabili, e per questo motivo più difficili da combattere, come il catcalling, le battute sessiste, persino la nostra grammatica.

Sono varie le situazioni in cui gli stereotipi di genere femminile ostacolano la parità: le posizioni lavorative, l’abbigliamento, l’aspetto fisico e i ruoli di genere. Una volta che si diventa genitori si ricade nei ruoli tradizionali. Alla nascita di un figlio, una donna dopo essere diventata mamma, dovrà lottare per poter, se vuole, perseguire una carriera professionale, mentre per un uomo si dà per scontato che alla nascita di un figlio, dopo qualche giorno di congedo per paternità, tornerà alla sua vita professionale come prima.

Un chiaro segnale di quanto questo concetto sia onnipresente, (e per questo apparentemente invisibile) nella nostra quotidianità, è evidente dall’atteggiamento di molte donne che, inconsapevolmente, sono diventate “Nemiche delle donne”, pronte a giustificare uomini indifendibili e colpevolizzare le vittime di abusi. A conferma del fatto che, quando un’intera società trasmette un sistema di valori compatto, apparentemente ben formato, è difficile che negli individui venga in mente di ribellarsi a queste cose.

Cosa si deve fare per cambiare la cultura?

Presa consapevolezza dell’entità del problema per poterlo risolvere occorre modificare le gabbie mentali acquisite a prescindere dal genere e fatte proprie da uomini e donne che, in una quantità di gesti quotidiani, continuano a legittimare e trasmettere luoghi comuni duri a morire.

Condividi

Rispondi