Un nuovo modo di combattere il Parkinson attraverso la genetica

Dalla California arrivano buone notizie, perché la ricerca sul Parkinson potrebbe aver fatto un altro passo avanti, forse decisivo. Un nuovo trattamento potrebbe aver evidenziato un modo per trattare una delle malattie degenerative più conosciute e temute nel mondo.

Il laboratorio in questione, grazie al lavoro di Xiang-Dong Fu, si è occupato di studiare attraverso il modello animale una proteina chiamata PTB (Polypyrimidine tract-binding protein), la cui funzione è necessaria per “accendere” e “spegnere” alcuni specifici geni, influenzando il processo che porta dal DNA nucleare alla formazione di proteine mediante il lavoro di trascrizione dell’RNA.

Ma anche la PTB, come tutte le proteine, deriva da un gene specifico; inibendo il suo gene, e quindi manipolando la quantità della proteina PTB all’interno delle cellule, i ricercatori hanno scoperto come alcune tipologie di cellule nei roditori potessero “trasformarsi” direttamente in neuroni.

Trasformare gli astrociti in neuroni

Il passo successivo, il quale potrebbe un giorno essere traslato alle cure sugli esseri umani, è stato quello di utilizzare un singolo trattamento che inibisse la PTB nei roditori.

In questo modo degli astrociti, ovvero delle cellule a forma di stella che svolgono molteplici funzioni di supporto, subivano un cambiamento trasformazionale che li portava a diventare dei neuroni provvisti di dopamina.

Nel Parkinson, sono proprio disfunzioni a livello dopaminergico a causare problemi tipici come i tremori e le difficoltà di movimento. Di fatto, questi nuovi neuroni sono stati in grado di rimpiazzare quelli distrutti a causa del morbo, facendo scomparire i sintomi.

Nei topi ai quali veniva somministrato il trattamento, rispetto agli altri comunque “affetti” da Parkinson (la disfunzione nei roditori viene indotta dai ricercatori attraverso diversi metodi sperimentali), la popolazione neuronale cresceva di circa il 30%.

I livelli di dopamina diventavano quindi comparabili con il gruppo di controllo, ovvero nei topi sani. Incredibilmente, non solo i sintomi scomparivano nel giro di tre mesi dal singolo trattamento, ma permanevano per il resto della vita degli animali.

Dal modello animale alla cura dell’uomo

Il limite dei modelli animali, ovviamente, sta tutto nell’impossibilità di replicare direttamente i risultati ottenuti sugli uomini. Sono infatti necessari tantissimi controlli prima di poter arrivare a sperimentare una cura sugli esseri umani.

Nonostante ciò, la possibilità testata sembra poter rappresentare una soluzione che in futuro potrebbe aiutare individui non solo affetti dal morbo di Parkinson, ma anche da altre patologie come la Corea di Huntington e l’Alzheimer.

La scoperta della San Diego School of Medicine potrebbe aver aperto la strada verso un nuovo modo di affrontare questi mali che da centinaia di anni affliggono l’uomo.

di Daniele Sasso

fonti:

  • Hao Qian, Xinjiang Kang, Jing Hu, Dongyang Zhang, Zhengyu Liang, Fan Meng, Xuan Zhang, Yuanchao Xue, Roy Maimon, Steven F. Dowdy, Neal K. Devaraj, Zhuan Zhou, William C. Mobley, Don W. Cleveland, Xiang-Dong Fu. Reversing a model of Parkinson’s disease with in situ converted nigral neurons. Nature, 2020; 582 (7813): 550

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