L’homo sapiens, la specie cui apparteniamo, si aggira per il mondo da circa 300.000 anni, probabilmente anche di più.
Eppure quella che definiamo civilizzazione ebbe inizio in tempi molto recenti, al confronto.
Sì ritiene infatti l’uomo abbia iniziato la transizione dall’attività di cacciatore-raccoglitore verso l’agricoltura e la domesticazione di specie animali circa 10.000 anni fa, mentre 6.400 anni è il limite attualmente dimostrabile riguardo l’inizio della civiltà (sebbene alcuni siti in fase di studio potrebbero retrodatarne la nascita di ulteriori due o tremila anni).
Qualcosa dev’essere cambiato e in un tempo relativamente breve. È il grande interrogativo: cosa ci ha instradato lungo la via dell’evoluzione che ci ha indotti a essere ciò che siamo oggi dopo centinaia di migliaia di anni senza sostanziali variazioni? I ricercatori ritengono che i primi umani fossero già intelligenti a sufficienza da poter dare inizio alle coltivazioni già trecentomila anni or sono. Eppure non lo fecero.
Un punto di svolta potrebbe essere il termine dell’ultima glaciazione, circa 12.000 anni fa; il cambiamento climatico ebbe una grande influenza sulle specie animali predate dall’uomo dell’epoca, ma la razza umana aveva già attraversato tre diverse glaciazioni senza inventare l’agricoltura.
L’altro fattore determinante è la migrazione. Le prime “incursioni” fuori dal continente africano sarebbero cominciate 120.000 mila fa, mentre la migrazione principale avrebbe avuto luogo 60.000 anni or sono.
Da questo punto in poi sembra che ovunque vada l’uomo, nel giro di poche migliaia di anni si verifichino estinzioni di massa riguardanti soprattutto gli animali di taglia più grande: dai mammuth ai rinoceronti lanosi, agli armadilli, bradipi e canguri giganti.
Ci si è sempre chiesti quanto gli umani abbiano influito in tali estinzioni; oggi si tende a ritenere fossimo cacciatori tanto efficienti da aver contribuito alla sparizione di diverse specie, con o senza l'”aiuto” dei cambiamenti climatici, che pure hanno avuto il loro peso.
Sfamarsi tramite l’agricoltura presuppone un grande impegno: lavori oggi supponendo di mangiare dopo diversi mesi e sei sottoposto ai cicli stagionali, a rischi di alluvioni, grandinate, attacchi di insetti particolarmente voraci e persino di altri gruppi di umani pronti a portarti via il frutto del tuo lavoro. Se sei un cacciatore, quando hai fame puoi procurarti il cibo da consumare immediatamente e se hai una giornata poco fruttuosa puoi sempre riprovarci domani. Stabilirsi in un luogo fisso e pensare sul lungo termine presuppone grande pianificazione e l’assunzione di rischi diversi.
L’idea quindi è che l’essere umano sia stato costretto a cambiare il proprio stile di vita.
Cacciare una preda di grandi dimensioni è molto più proficuo rispetto ai piccoli animali, ma più è grande, più tempo necessita per la riproduzione e minori sono i cuccioli messi al mondo: per un confronto odierno, basti pensare alla gestazione dell’elefante, 22 mesi per dare alla luce un solo elefantino, mente un coniglio partorisce una decina di piccoli dopo un mese di gravidanza.
Trovare altre vie per sfamarsi sarebbe quindi stata una necessità autoinflitta proprio dalla grande efficacia nella pratica della caccia.
La stessa quantità di terreno sfruttata in agricoltura può sfamare molti più individui rispetto alla ricerca di prede e la necessità di fermarsi a vivere in un determinato luogo, divenire stanziali, con l’obbligo di pensare in modo determinato e strutturale alle necessità del futuro, dalla semina al raccolto fino alla creazione di abitazioni e tecniche di stoccaggio e conservazione del cibo, sarebbe dunque stata la scintilla alla base della nascita della civiltà.
Secondo tale ipotesi, siamo quindi passati dalle abitudini di caccia dell’era glaciale al mondo moderno non perché fosse più comodo e portasse miglioramenti nelle nostre condizioni di vita, tutt’altro, ma perché costretti. Potremmo noi stessi aver talmente sfruttato l’ecosistema da cui dipendevamo da trovarci di fronte alla necessità di cambiamenti radicali per continuare a sopravvivere. E forse è una lezione che varrebbe la pena ricordare.
[Nell’immagine, un Mastodonte Americano nella classica ricostruzione di Charles Robert Knight (1874-1953)]
Di Corrado Festa Bianchet
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