AstronomiaNewsScienza

Un puntino scoperto da Hubble diventa una massiccia galassia primordiale grazie al telescopio spaziale Webb

Appariva, due anni fa, poco più di un puntino luminoso se visto dal telescopio spaziale Hubble: ora il nuovo telescopio James Webb rivela che l’oggetto denominato Gz9p3 è una galassia di grandi dimensioni, molto più del previsto, nonché fra le più antiche mai osservate.

Noi vediamo Gz9p3 come appariva 510 milioni di anni dopo il Big Bang, verificatosi secondo le stime più recenti 13,8 miliardi di anni fa, e come altre galassie primordiali si presenta più massiccia di quanto in precedenza si ritenesse possibile in questa fase della vita dell’universo. A dirla tutta questa galassia è molto più massiccia: anche dieci volte più rispetto ad altre galassie risalenti alla stessa epoca osservate dal Webb, tanto da ospitare miliardi di stelle: per un paragone, la nostra Via Lattea con i suoi tredici miliardi di anni di età ne contiene circa 200 miliardi (calcolo medio sulle stime).

Quali possono essere le spiegazioni di questo enigma nell’enigma? Una parziale risposta potrebbe essere fornita dall’analisi delle immagini dirette ottenute dal JWST, con i ricercatori che hanno rilevato una forma insolita e la presenza di due macchie luminose identificate come densi nuclei: “L’immagine JWST della galassia mostra una morfologia tipicamente associata a due galassie interagenti. E la fusione non è terminata perché vediamo ancora due componenti”, spiega Kitt Boyett dell’Università di Melbourne, fra gli autori della ricerca. “Quando due oggetti massicci si uniscono in questo modo di fatto eliminano parte della materia nel processo. Quindi, questa materia scartata suggerisce che quella che abbiamo osservato sia una delle fusioni più distanti mai viste.”

Le galassie più antiche finora osservate risalgono a circa 300 milioni di anni dopo il Big Bang 

Il team ha sondato le caratteristiche della popolazione stellare: le stelle più giovani presentano solitamente una luminosità superiore rispetto a quelle più anziane, risaltando maggiormente nelle immagini: 

“Per esempio una popolazione giovane e brillante nata dalla fusione delle galassie e che ha meno di qualche milione di anni supera una popolazione più anziana che ha già oltre 100 milioni di anni” continua Boyett.

La spettroscopia può fornirci la composizione della stella osservata: una volta consumato tutto l’idrogeno essa inizia a bruciare l’elio generato di conseguenza, creando a sua volta elementi più pesanti che in tale contesto astronomico sono definiti metalli. Le stelle più ricche di metalli sono quindi più anziane rispetto a quelle che mostrano massicce quantità di idrogeno oppure di elio.

Grazie agli strumenti del telescopio Webb i ricercatori hanno analizzato più nello specifico gli elementi pesanti nella popolazione di stelle più vecchie di Gz9p3, in particolare silicio, carbonio e ferro (l’elemento più pesante e stabile sintetizzabile all’interno di una stella): giunte alla fine della loro vita, le stelle esplodono nel fenomeno chiamato supernova rilasciando questi elementi pesanti nell’universo, elementi che si possono poi addensare fino alla nascita di una stella di seconda generazione (com’è proprio il nostro Sole).

Nel caso di Gz9p3 il team ha però scoperto una popolazione di stelle anziane assai più estesa di quanto si ritenesse possibile: se il processo di vita, morte e rinascita delle stelle via via più ricche di metalli è un ciclo noto da tempo fra gli astronomi, quanto osservato implica le galassie possano essere diventate chimicamente mature con più rapidità rispetto a quanto finora ipotizzato.

“Queste osservazioni forniscono la prova di un rapido ed efficiente incremento di stelle e metalli nel periodo immediatamente successivo al Big Bang legato alle fusioni di galassie in corso, dimostrando che galassie massicce con diversi miliardi di stelle esistevano prima del previsto” commenta Boyett.

Supernova osservata attraverso la lente gravitazionale.
La supernova (nei cerchietti) nella galassia MRG-M0138 a dieci miliardi di anni luce da noi osservata dal James Webb Space Telescope: la sua forma distorta e sdoppiata è dovuta all’effetto lente gravitazionale generato da un’altra galassia frapposta a “soli” quattro miliardi di anni luce, senza il quale probabilmente non sarebbe stata nemmeno visibile. Si tratta della supernova più antica finora osservata e il processo di rilascio di metalli si verificava già nell’universo primordiale, come suggerisce l’osservazione di Gz9p3 (Credit immagine: NASA/ESA/CSA/STScI/Justin Pierel (STScI)/Andrew Newman (CIS))

Galassie di grandi dimensioni e buchi neri già supermassicci agli albori dell’universo sono fra gli enigmi più intriganti per gli astronomi 

Quando una galassia è isolata il processo di formazione stellare è relativamente lento e lineare, terminando con l’esaurimento delle scorte di gas e polveri disponibili.

Ma nel caso di galassie vicine fra di loro entra in gioco l’interazione, a partire dalla reciproca attrazione gravitazionale che può portare a una collisione e conseguente fusione (come accadrà fra la Via Lattea e Andromeda) che innesta, grazie all’afflusso di nuovo gas, a un periodo di rapida creazione di stelle denominato in gergo starburst. Grazie alla fusione fra due galassie la popolazione stellare si accresce quindi in modo veloce potendo persino riprendere dopo che si era arrestata. Questa sorta di cannibalizzazione reciproca oppure di assorbimento di piccole galassie da parte di quelle più grandi (ancora, è anche questo il caso della Via Lattea stessa che secondo studi recenti ne avrebbe inglobata una di massa inferiore) tali interazioni sono molto diffuse nell’universo e all’origine della maggior parte delle grandi galassie.

Le osservazioni di Gz9p3 suggeriscono questa modalità di accumulo rapido di massa e incremento della popolazione stellare costituisse un fattore molto più importante del previsto già nell’universo primordiale: “Queste osservazioni di Gz9p3 mostrano che le galassie erano in grado di accumulare massa rapidamente nell’universo primordiale attraverso fusioni, con efficienze di formazione stellare superiori a quanto ci aspettassimo”, spiega Boyett. “Questa e altre osservazioni effettuate utilizzando il JWST stanno inducendo gli astrofisici a modificare la loro modellizzazione dei primi anni dell’universo.

“La nostra cosmologia non è necessariamente sbagliata, ma probabilmente lo è la nostra comprensione della velocità con cui si sono formate le galassie, perché sono più massicce di quanto avessimo mai creduto possibile.”

La ricerca A massive interacting galaxy 510 million years after the Big Bang è stata pubblicata il 7 marzo sulla rivista Nature Astronomy.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *