Diga del Vajont: uno sguardo al passato per non commettere ancora gli stessi errori in vista del futuro

è la sera del 9 ottobre del 1963 e a Lungarone, in provincia di Belluno, improvvisamente comincia a soffiare un insolito vento: freddo e costante. Il presentimento è che su quella montagna , quella che da anni scricchiola e si crepa, sia successo qualcosa. Un’onda di 300 tonnellate d’acqua, alta 70 metri, sta scendendo dalla valle alla velocità di 80 km/h per riversarsi sulle città. Un boato, le luci si spengono, lampi all’orizzonte: sono i cavi dell’elettricità strappati con violenza dal vento e dall’onda. In 6 minuti vengono spazzati via dalla furia di vento, acqua e fango il paese di Longarone e i comuni limitrofi causando la morte di 1919 persone, delle quali 487 bambini. È crollato il Monte Toc, in Friulano “IL MONTE MARCIO”
VENET01, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

LA NASCITA DEL PROGETTO

Siamo nei primi del 900 e in un’Italia povera di energia elettrica L’IDROELETTRICO rappresenta una fonte inestimabile. C’è un torrente: il Vajont, che scorre in una valle in provincia di Pordenone:, quella valle ha tutto ciò di cui l’Italia ha bisogno: una notevole quantità d’acqua e una grande differenza di quota tra monte e valle. Così nel 1929 l’ingegnere Carlo Semenza presenta un primo progetto: una diga di 130 metri d’altezza, e successivamente, dopo 8 anni un secondo ancora più ambizioso dall’altezza di190 METRI. Il progetto è sfruttare il Boide, il Piave, il Maé e il Vajont per dare origine al cosiddetto SISTEMA del GRANDE VAJONT, abbastanza per approvvigionare Venezia e il suo porto industriale e abbastanza per produrre un terzo dell’energia utilizzata dall’intera regione: una delle più industrializzate d’Italia.

Nel 1943, dopo la caduta di Mussolini e alla vigilia dell’armistizio la commissione approva il progetto e nel 1948 viene redatto il progetto esecutivo che con l’ultima modifica nel 1957 prevede una diga di 263 metri e mezzo: la più grande del mondo. La popolazione della valle nel frattempo ha paura: i montanari sanno che quelle montagne non sono stabili ma il geologo luminare Dalpiaz rassicura: “Sotto il monte Toc c’è solo un po’ di argilla, niente che impedisca di costruire”. Due anni dopo, nel 1959, a pochi chilometri di distanza, una frana di 3 milioni di metri cubi precipita nel lago artificiale di un’altra diga progettata da Semenza: la diga di Pontesei. Precipitando in acqua la massa di roccia alza un’onda di 20 metri provocando una sola vittima: un operaio della ditta di manutenzione. Ma sulla vicenda cala il silenzio delle autorità che lo considerano soltanto un incidente isolato.

I cittadini dei paesi vicini però sono sempre più allarmati, istituiscono un comitato ma pochi mesi dopo la diga del Vajont è già pronta. La frana di Pontesei tuttavia scuote il ministero che decide di fare alcune indagini: Il geologo Muller indaga con tecniche nuove estraendo campioni direttamente dal terreno. L’esito dell’indagine sulla montagna è a dir poco disastroso: sotto la superficie del Toc si trova un’enorme massa in movimento, Una frana silente con un fronte di 2chilometri e mezzo. Alla luce di queste scoperte sarebbe scontato pensare che si debba fermare tutto: invece no. L’iter prosegue indisturbato.

Ricordiamo infatti quale fosse il clima italiano in quel periodo; timori e allarmismo non si accordavano con il boom economico e i benefici che un’opera pubblica come il Vajont avrebbe garantito. Inoltre il paese si stava avviando verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica dunque la SADE era ansiosa di collaudare la diga in modo da poter beneficiare pienamente dei contributi pubblici.

Man mano che la diga si riempie avvengono i primi fenomeni franosi e si registrano anche piccole scosse. Nonostante le avvisaglie di una natura indomabile, niente viene fatto per impedire una tragedia già annunciata e così alle 22:39 del 9 ottobre quasi 2 mila persone rimangono travolte da un’enorme valanga di acqua e fango.

Sei decenni dopo il disastro, quale lezione avremmo dovuto imparare?

Marco Paolini, attore e drammaturgo, in occasione del 60 anniversario del disastro del Vajont ha scritto uno spettacolo intitolato Vajonts23, un’azione corale di teatro civile che vuole essere un’occasione per riflettere sul passato ma anche su come un rapporto uomo-natura basato sul controllo e sullo sfruttamento dell’uno sull’altro, comporti effetti devastanti.

Per riprendere le sue parole, dovremmo spostare l’accento dalla colpa all’errore, perché della prima si occupano i tribunali, mentre è dagli errori che dobbiamo imparare. La storia del Vajont contiene degli errori ancora attuali: non vedere ciò che si ha davanti, non comprendere la natura del rischio, e mettere gli interessi economici al di sopra della sicurezza e della vita delle persone.

Dalla strage del Vajont, alla valanga che travolse l’hotel Rigopiano uccidendo 29 vite per arrivare nel 2018 al crollo del ponte Morandi,… La storia si è macchiata più volte della corruzione e della negligenza che ha messo a rischio la vita umana in nome del profitto.

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