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Enzima rielaborato per curare i danni da ictus e lesioni al midollo spinale

Quando si verifica un danno alle cellule cerebrali o del midollo spinale, in seguito a un trauma o a un ictus, interviene un meccanismo a difesa dell’area colpita: cellule con funzionalità protettive si aggregano creando un tessuto cicatriziale che inibisce la crescita di fibre nervose danneggiate. Almeno questa è l’ipotesi maggiormente condivisa, poiché il meccanismo, pur noto da parecchio tempo, non è ancora del tutto chiaro.

La cicatrice gliale

La definizione deriva dalla grande presenza di cellule denominate gliali nella formazione del tessuto protettivo, anche se recentemente si è scoperto la maggior parte del tessuto connettivo che si aggrega intorno alla lesione è costituito da un’altra tipologia di cellule dette periciti.
Il punto comunque è che pur formandosi a scopo protettivo la cicatrice gliale finisce a lungo termine anche con l’inibire le possibilità di guarigione del tessuto nervoso.

Modulare e ridurre la formazione della cicatrice al fine di permettere il recupero delle funzioni perdute è da decenni l’obiettivo dei ricercatori, e da una ventina d’anni è noto il potenziale di un enzima naturale, la condroitina ABC, prodotta da un batterio, il Proteus vulgaris: esso è in grado di degradare selettivamente le molecole che formano il tessuto cicatriziale favorendo la ricrescita di cellule nervose sane e persino il recupero delle funzionalità perdute.

Ma c’è un problema: le molecole dell’enzima una volta inserite nel nuovo ambiente, il corpo umano o animale, tendono rapidamente ad aggregarsi e diventare inattive, perdendo la funzionalità desiderata. Ed è inoltre difficile inserirle in un’adeguata formulazione atta a essere iniettata nella zona da curare poiché sono facilmente soggette a degradazione chimica.

Sono state provate diverse tecniche per porre rimedio all’instabilità, dall’avvolgere l’enzima in un polimero biocompatibile per prevenirne l’aggregazione a una somministrazione lenta e controllata, ma pur mostrando miglioramenti nessuna si è rivelata davvero efficace nel risolvere il problema di base.

Trovare l’ago nel pagliaio

Un team di ricercatori dell’Università di Ingegneria di Toronto e dell’Università del Michigan ha tentato una via che, essi stessi raccontano, era stata loro inizialmente sconsigliata per le scarse probabilità di successo. Ma ne è valsa la pena.

Come tutte le proteine, la condroitina ABC è composta di amminoacidi; ogni collegamento di questa catena, e nell’enzima ce n’è un migliaio, è formato da una sorta di mattoncino Lego composto a sua volta da venti amminoacidi. Ebbene l’idea è di alterare questa struttura biochimica in modo da eliminare o ridurre le cause dell’instabilità.

Tuttavia gli effetti della modifica di pochissimi di questi componenti può dare adito a una quantità enorme di effetti: anche in natura una mutazione può portare a un miglioramento della struttura ma molto più di frequente alla sua disgregazione, è quindi necessario sapere esattamente quali amminoacidi sostituire, con quali altri e in quale posizione.

I risultati incoraggianti sono stati ottenuti grazie a un efficace approccio multidisciplinare

Per restringere il campo si è ricorso ad algoritmi in grado di simulare la sostituzione degli amminoacidi, creando forme mutanti dell’enzima che non esistono in natura ma che in base alle conoscenze acquisite e pregresse potrebbero funzionare in pratica.

La complessa ricerca, proseguita con test di laboratorio, ha portato a tre candidati di cui uno, basato su 37 sostituzioni nei mille collegamenti, si è rivelato sia più stabile che più attivo dell’enzima di partenza. La condroitina ABC naturale perde di efficacia dopo sole 24 ore mentre questa versione reingegnerizzata è efficace per una settimana.

Ora si proseguirà la ricerca usando l’enzima modificato in laboratorio nei test dove finora si era usato quello naturale, per meglio comprenderne il potenziale terapeutico da solo o in abbinamento con altre strategie. I ricercatori sono molto soddisfatti dei risultati, che hanno finora superato ogni più rosea aspettativa.

La ricerca è stata pubblicata il 19 agosto 2020 sulla rivista Science Advances.

Di Corrado Festa Bianchet

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