Scienza

Membrane per catturare energia pulita dagli oceani

Energie rinnovabili: sempre più un tema all’ordine del giorno in questo periodo di dibattito sul cambiamento climatico. Molti metodi per la loro produzione sono noti al grande pubblico: si va dalle centrali idroelettriche e termoelettriche che rivestono da tempo grande importanza in questo settore a tecnologie più di frontiera che stanno conoscendo un rapido sviluppo negli ultimi anni, come la produzione di energia tramite pannelli fotovoltaici o lo sfruttamento di altri fenomeni quali il vento o la forza delle maree.
La produzione di energia attraverso l’osmosi, anche chiamata a gradiente salino, è di più recente sviluppo (concepita negli anni 70) e decisamente meno nota, sebbene siano già state testate centrali di questo tipo (per esempio in Norvegia).
L’osmosi è quel processo attraverso il quale la clorofilla scorre nelle piante, l’acqua viene catturata dal terreno attraverso le radici o i tessuti animali, incluso naturalmente l’uomo, vengono mantenuti idratati.
Per generare energia attraverso l’osmosi sono necessarie due soluzioni liquide diverse, per esempio acqua salata e acqua dolce, che pompate contemporaneamente in un contenitore separato al suo interno da una membrana semipermeabile danno luogo a una pressione tale da poter alimentare una turbina che a sua volta produrrà energia elettrica; questo accade poiché l’osmosi induce il liquido a maggior concentrazione di soluto a spostarsi verso quello a minor concentrazione, fino a raggiungere l’equilibrio fra le due parti; ma il processo diventa continuo se l’afflusso d’acqua nei contenitori è costante. La pressione generata nella centrale norvegese a sud di Oslo era paragonabile a una colonna d’acqua alta 120 metri, la potenzialità di questo sistema appare quindi evidente e i luoghi adatti alla costruzione di centrali sono innumerevoli: basti pensare agli estuari dei fiumi, oltre ai fiordi scandinavi.
Il problema maggiore è tuttavia costituito dai materiali con cui sono realizzate le membrane, in particolare per la rapida usura cui sono soggetti a causa della salinità dell’acqua di mare.
Risultati promettenti vengono ora da un team di ricercatori dell’Università di Deakin (Australia) guidato dal dottor Weiwei Lei.
Il nitruro di boro è un nanomateriale già sperimentato nella realizzazione di membrane per l’osmosi, rivelandosi in grado di sostenere efficacemente notevoli sbalzi di temperatura e resistente all’interazione con altre sostanze, ma piuttosto fragile alla pressione dell’acqua con conseguente rapido sviluppo di microfratture.
Come salvaguardare l’integrità strutturale di una membrana altrimenti di grande efficenza?
I ricercatori sono giunti alla creazione di un materiale che combina il nitruro di boro all’aramide, un polimero dalle elevatissime proprietà meccaniche resistente alla trazione. Le fibre aramidiche sono alla base del kevlar, inizialmente noto soprattutto per i giubbetti antiproiettile ma oggi ampiamente in uso in campi che spaziano dall’industria automobilistica allo sport all’edilizia.
La membrana ibrida costituita da questi due componenti si rivela, nei test di laboratorio, molto efficiente nel processo osmotico rispetto ad altri nanomateriali e molto stabile in un’ampia gamma di temperature (fra 0 e 95 gradi) e di acidità o basicità (pH fra 2,8 e 10,8). Lo spessore può inoltre essere facilmente variato a seconda delle specifiche necessità e ha mantenuto la sua efficienza per le 200 ore di test.
Quello approntato dal team di Deakin è il tessuto più performante e resistente mai realizzato per lo scopo prefisso con per di più il vantaggio di essere basato su materiali di facile reperibilità e a basso costo; le fibre aramidiche potrebbero addirittura venire ricavate dal riciclo del kevlar divenuto ormai spazzatura.
Questi risultati promettenti sono stati ottenuti senza alcun procedimento di ottimizzazione, quindi secondo i ricercatori le performance sono destinate ad aumentare ulteriormente.

Di Corrado Festa Bianchet

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