Una nuova tecnica permette di stampare polimeri “viventi” in 4D

La stampa 3D ha visto nell’ultimo decennio una rapida diffusione anche nelle case di semplici appassionati e un continuo evolversi e affinarsi delle tecnologie su cui si basa, in grado di garantire possibilità fino a poco tempo fa assolutamente inimmaginabili.
Il primo prototipo di stampante 3D fu in realtà creato nell’ormai lontano 1983 da Charles “Chuck” Hall, che avrebbe tre anni dopo messo in commercio i primi esemplari tramite la sua società appositamente fondata per sfruttare quest’innovazione, la 3D Systems. L’elevato costo dei dispositivi ne limitò a lungo l’utilizzo perlopiù in industrie dal grande giro d’affari come quelle automobilistica e aeronautica, dove l’investimento aveva senso e le potenzialità di questa tecnologia tornavano effettivamente utili.

Oggi le stampanti 3D “casalinghe” partono da prezzi inferiori ai 200 euro e permettono la produzione di oggetti di buona fattura in materiale plastico, dal PLA (una plastica biodegradabile di origine vegetale) al nylon all’ABS; Le stampanti professionali e di costo assai più elevato vantano naturalmente caratteristiche più avanzate come la possibilità di usare altri materiali, anche contemporaneamente: con sei tipologie diverse di plastiche o metalli si possono certo produrre oggetti di notevole complessità. Si sta persino lavorando sulla stampa di tessuti biologici e altre applicazioni in campo medico.

Ora la collaborazione fra la UNSW (University of New South Wales) di Sidney e l’Università di Auckland ha portato dopo due anni di ricerche e centinaia di esperimenti alla messa a punto di una tecnica in grado di unire la polimerizzazione vivente fotocontrollata alla stampa 3D/4D.
Ma di cosa si tratta? Come nella fisica, anche in questo ambito la “quarta dimensione” è il tempo: un oggetto convenzionale una volta stampato in tre dimensioni mantiene inalterate le proprie caratteristiche; ma le proprietà di materiali particolari variano a seconda delle condizioni cui vengono sottoposti: un esempio semplice è rappresentato da una lamina piatta che se bagnata si curva ma una volta asciutta ritorna alla sua condizione iniziale. Queste e più complesse qualità dei “polimeri viventi” sono ora ottenibili attraverso un sistema di controllo della creazione dei polimeri stessi basato sulla luce visibile e a temperatura ambiente che permette l’indispensabile grande controllo sull’architettura del tessuto e la capacità di attribuirgli le proprietà meccaniche di volta in volta richieste per il compito cui il materiale sarà destinato. La tecnica è ecosostenibile poiché permette di intervenire a riparare un materiale plastico danneggiato, anziché recuperarlo attraverso il riciclo, o di modificarne le proprietà in base alle esigenze specifiche.
L’esatto opposto del concetto di plastica usa e getta.
Inoltre, la possibilità di non fare uso di additivi tossici e dell’esposizione ai raggi ultravioletti tipiche delle normali tecniche di polimerizzazione ad alta temperatura permette un grande sviluppo della stampa 3D/4D in campo biomedico, con la possibilità di creare tessuti ad hoc o “contenitori” capaci di trasportare e rilasciare i farmaci (per esempio quelli chemioterapici) in modo preciso e localizzato solo laddove debbano agire, aumentandone l’efficacia e riducendone gli effetti collaterali.

Finora i processi di polimerizzazione controllata erano troppo lenti in rapporto alla rapidità necessaria per un uso pratico della stampa 3D, ma il metodo messo a punto dai ricercatori delle due università australiane ha ovviato a questo limite.
Le possibilità offerte dalla stampa 3D/4D dei polimeri viventi sono praticamente infinite, molti materiali già in uso saranno di più semplice, rapida ed economica produzione mentre la creazione di nuovi materiali dalle caratteristiche avanzate troverà applicazioni in campi finora impensabili.

Di Corrado Festa Bianchet

Condividi

Rispondi