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Un salmone morto può insegnarci qualcosa sulle neuroscienze?

Nell’ultima decade le ricerche che utilizzano metodiche neuroscientifiche si sono moltiplicate, e questo è avvenuto anche grazie all’introduzione di nuovi strumenti in grado di fornire immagini del cervello in vivo che catturano il funzionamento cerebrale.

Ormai è possibile ottenere in maniera relativamente semplice informazioni inerenti alla quantità di ossigeno che arriva ad una particolare area del cervello (tecnica BOLD), permettendo di inferire quanto quella porzione del nostro encefalo sia attiva.

Mentre gli studi che sfruttano tecniche come la risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni continuano a fioccare, contribuendo allo sviluppo di una conoscenza maggiore per quel che riguarda soprattutto lo sviluppo delle neuropatologie, rimane necessario guardare ai dati ottenuti con una certa prudenza.

Un esempio ormai famoso di come le neuroimmagini possano trarre in inganno arriva direttamente dall’università di Santa Barabara, in California. Lo studio di Craig Bennet del 2012, probabilmente unico nel suo genere, ha forse fornito il messaggio più esaustivo da questo punto di vista.

L’assurdo paradigma utilizzato prevedeva di mostrare a dei salmoni morti delle fotografie di esseri umani in situazioni ad alto carico emotivo. Le neuroimmagini ottenute dai pesci deceduti mostravano effettivamente un’attività cerebrale molto intensa.

L’assurdità dei risultati e il falso positivo ottenuto non erano frutto di uno strano incantesimo, ma semplicemente dei rumori di sottofondo dovuti ad una errata calibrazione degli strumenti. Questo permetteva di ottenere dai salmoni dei livelli di attività tipici di una persona emozionalmente coinvolta.

Questo perché le tecniche di neuroimmagine, le quali sfruttano algoritmi sempre più sofisticati per l’elaborazione dei segnali raccolti, dovrebbero essere sempre affiancati da una analisi statistica meticolosa.

Quello di Bennet è un monito estremamente importante da tenere in considerazione. Andando ad indagare gli articoli pubblicati da riviste come NeuroImage, Cerebral Cortex e Social Cognitive and Affective Neuroscience, il neuroscienziato aveva rilevato che in circa il 30% dei lavori era stato commesso un errore simile a quello che lui aveva abilmente simulato.

Nello stesso anno, lo studio condotto è stato premiato meritatamente con il premio Ig Nobel, assegnato alle ricerche più strane, divertenti e assurde.

Lo scopo dichiarato del riconoscimento è “premiare l’insolito, l’immaginifico, e stimolare l’interesse del pubblico generale alla scienza, alla medicina, e alla tecnologia”. Sono ricerche che in un primo momento fanno sorridere, e che in seguito possono portare alla consapevolezza che nella ricerca la riflessione deve porsi sempre prima della corsa parossistica ai dati.

Nel caso specifico del salmone morto di Bennet, la lezione è molto chiara: le neuroimmagini sono uno strumento potente e costoso, che permetterà di scoprire sempre di più sulla black box rappresentata dal nostro cervello.

Allo stesso tempo, l’entusiasmo dovrà sempre essere mediato da una certa dose di prudenza, per ottenere risultati che spianino davvero la strada verso la conoscenza.

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