L’effetto di positività nella vecchiaia: ecco perché gli anziani sono più felici (Parte II)

Dopo aver analizzato le ipotesi sui cambiamenti biologici inerenti al positivity bias negli anziani, è necessario considerare questo fenomeno da un punto di vista maggiormente teorico. È possibile, infatti, definire quattro principali filoni che hanno trovato spazio all’interno della letteratura, e che hanno indirizzato la ricerca di nuove evidenze per quel che riguarda questo fenomeno:

  • Socioemotional Selectivity Theory: l’invecchiamento si assocerebbe ad una limitata prospettiva di tempo, che porta a differenze motivazionali nell’utilizzo dell’attenzione e delle informazioni. L’anzianità determinerebbe quindi un maggiore allocamento delle poche risorse cognitive verso gli stimoli positivi, e verso informazioni che migliorano l’umore e il benessere.
  • Dynamic Integration Theory: il cambio nella regolazione emotiva dipenderebbe, secondo tale teoria, dall’interazione tra circostanze situazionali e differenze individuali. A bassi livelli di attivazione, l’anzianità agirebbe sulla differenziazione e sulla complessità nell’esperienza emotiva. Ad alti livelli di attivazione ci sarebbero quindi maggiori difficoltà nel provare un’emozione, soprattutto davanti ad una maggiore richiesta di carico cognitivo e a causa delle ridotte funzioni cognitive. Gli anziani compenserebbero questo problema con una ottimizzazione delle strategie che minimizzano gli effetti negativi e massimizzano quelli positivi. Il positivity bias dipenderebbe quindi dal declino della complessità emozionale, che determina una ridotta integrazione e tolleranza delle emozioni negative.
  • Learning and Practice Theory: L’esperienza nel corso della vita porterebbe a delle strategie di regolazione emotiva più complesse, flessibili e mature. Questo determinerebbe una riduzione nella percezione dello stress dovuto a problemi di salute, ai lutti e alle catastrofi ambientali.
  • Byproduct of Biological Decline Theory: Si basa su uno shift della valenza in risposta all’attivazione dell’amigdala, dovuto ad un’attenuazione dell’attivazione fisiologica legata all’età. Il potenziamento delle memorie tipico delle emozioni negative andrebbe quindi a ridursi, mentre andrebbe incrementandosi il benessere soggettivo. L’attenuazione dell’attivazione fisiologica (arousal) verso gli stimoli negativi porterebbe anche ad un deficit nella presa di decisione davanti a dei feedback negativi. Un comportamento, di fatto, simile a pazienti con lesioni dell’amigdala.

Alla luce delle evidenze e dei filoni di ricerca presi in considerazione, è quindi possibile definire il positivity bias come una strategia di regolazione emozionale che negli anziani necessita, in ogni caso, dell’utilizzo di risorse cognitive, ma che permette di affrontare al meglio gli ultimi anni della propria esistenza sul piano emotivo.

Allo stesso tempo, è necessario considerare l’influenza del contesto su questo effetto, che in parte può essere sovvertito da particolari condizioni all’interno delle quali il soggetto può trovarsi.

In tal senso, una spinta motivazionale a sfruttare le informazioni negative può favorire la propensione ad utilizzare queste ultime. Sembra infatti che, ad un livello di elaborazione più tardiva, gli anziani possano essere in grado di controllare la preferenza, in ogni caso presente, verso gli stimoli positivi.

di Daniele Sasso

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